Dai Poeti alle Poesie
ANTONELLA ANEDDA
I poeti son come capre...
di Vittorio Cozzoli
Parte seconda
Cozzoli: Nel tuo recentissimo "La luce delle cose" ho notato quanto anche per te sia importante il problema della poesia, dello scrivere poesia, dopo Auschwitz. C’è un coraggio di continuare, di far continuare la poesia, anche dopo l’orrore di Auschwitz. Ciò significa aiutare gli uomini a ritrovare, attraverso la poesia, un senso delle cose, della storia, dunque il senso del vivere. Mi pareva di cogliere in te una volontà, anche se espressa con pudore e fragilità, durissima di continuare a farli esistere tra gli uomini. Ho colto correttamente i tuoi cenni?
Anedda: In me risuonano le parole di Paul Celan, quando si chiede che cosa si intenda per poesia. E aggiunge che non può essere al modo degli usignoli. Lui dice che non ci può essere una musicalità, ma una musica. E quindi si può essere accanto ad Auschwitz. Certo, dire "dopo" pone moltissimi problemi. Però se noi diciamo "accanto", allora forse la poesia può stare "accanto".
Cozzoli: Tocco questo problema perché ho trovato presente l’immenso dolore di Auschwitz in quel cammino di presa di coscienza della presenza del male dentro la storia e, nello stesso tempo, del significato della Croce, intesa come il modo ultimo di affrontarlo e vincerlo. Mi sembrava che la salita con la croce fosse presente nel tuo libro attraverso certi forti richiami a san Giovanni della Croce e che questi avessero significato anche per la poesia.
Antonella Anedda è nata a Roma dove ha studiato laureandosi in Storia dell’arte moderna.
Il suo esordio letterario risale al 1992, anno in cui uscì la sua prima raccolta poetica Residenze invernali (Crocetti, Milano 1992; Premio Sinìsgalli, Premio Diego Valeri, Tratti Poetry Prize) che la rivelò come una tra le voci più originali e significative della nuova poesia italiana. Hanno fatto seguito la pubblicazione della raccolta di saggi e racconti Cosa sono gli anni (Fazi Editore, Roma 1997), il volume di traduzioni poetiche Nomi distanti (Empiria, Roma 1998) e La luce delle cose (Feltrinelli, Milano 2000).

 

C’è dunque anche per la poesia un cammino faticoso di ascesa, in senso purificatorio, di compimento, di ritrovamento della "luce" dopo quella "notte" che ha dato l’esperienza delle "tenebre".
Anedda: C’è in tutto questo anche un riferimento al discorso dell’errare, dell’andare, e questo nel senso che Mandel’stam ci ha indicato riferendosi alle suole di pelle caprina assai consumate da Dante nel suo durissimo cammino. Di fronte a Virgilio Dante fa la figura del "rozzone". È molto bello questo. Allora la poesia è un po’ questo sentiero per capre. È un percorso di questo tipo, per cui i poeti sono come capre (vedi Dante nel XXVII del Purgatorio) che seguono chi o cosa li conduce in alto. Qui c’è il senso della vita. In Dante c’è questo senso del presagio, questo senso "per uscire", finalmente "alle stelle".
Cozzoli:Quando finalmente si leggerà Dante in modo pieno, dunque anche anagogico, si capirà ancor meglio quello che Dante dice a quelli che lo seguono nel duro cammino di discesa prima e di risalita poi. A parttre da quel “mi ritrovai" è compito dei poeti aiutare gli uomini a ri-trovarsi. Ma noi stiamo approfondendo. Forse, ora, è anche utile aiutare i lettori a conoscere più umanamente i poeti. E ti chiedo: come passi la tua giornata, come la passi in quanto poeta?
Anedda (ride divertita, ma si riprende): Molto normale, la mia giornata è molto normale. Porto la bambina a scuola, torno e scrivo. Adesso che è a scuola posso scrivere la mattina; prima, quando andava all’asilo, scrivevo la notte, quando lei dormiva. Adesso, da un anno, scrivo soprattutto la mattina. Ma spesso non scrivo nulla, perché non esce nulla di decente. Però leggo e faccio altro.

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