Dai Poeti alle Poesie
ANTONELLA ANEDDA
I poeti son come capre...
di Vittorio Cozzoli
Parte terza ed ultima
Cozzoli: Una curiosità riguarda il come un poeta viva la propria condizione e come questa conduce alla scrittura. Provocando, chiedo: si vive come " doppi" (parte normale e parte creativa), o a periodi, o in altro modo: cosa dici della tua esperienza?
Anedda: No, accade solo quando qualcosa "ditta dentro". Poi magari, mentre cucino, esce qualcosa e nulla vieta di scriverlo dietro la busta del pane. Oppure, ecco, attaccare un bottone e avere un pensiero. No, non c’è una... dipende dalle fasi. Ci sono fasi più dolorose, in cui sembra che nulla accada, nulla chiami e non si riesca ad ascoltare nulla. Però, quando poi c’è il momento dell’orecchio, perché qualcosa c’è. Magari accade in autobus, allora esce qualcosa.
Cozzoli: Un’altra domanda che oggi soprattutto può interessare i lettori è questa: in che senso si può considerare religioso l’atto poetico..
Anedda: Pensando alla mia esperienza, questo è il momento in cui effettivamente le cose si legano. In questo senso, sì, l’atto poetico può essere considerato religioso. Spesso, nella fase in cui ancora non ho scritto - i periodi possono essere più lunghi o più brevi - ho come la sensazione di trasportare cose infiammabili, dei fuocherelli che mi scaldano e che mi bruciano anche. Ecco, nel momento in cui riesco a scrivere, questo e altre cose si legano tra loro.
Cozzoli: Questo si riferisce anche a quell’affermazione che fai in una pagina de "La luce delle cose", in cui dici che "tutto si unisce a un’altra voce, a un’altra lingua spezzata, pericolosa e radente, sprofondata in un vuoto che ogni volta riconosco"?
Anedda: C’è proprio questo legame, che non è fusione; è proprio il legare le cose tra di loro.
Aspetta che scenda la temuta notte, che scompaia
la luce dal crepuscolo, e ruoti
la terra sul suo asse.
Questa è la verità di questa sera incerta
sui cespugli di acacie e sulle case
questa è la sua misura — un acro di deserto.

Sopporta i tuoi pensieri dentro il buio
che avanzino in fitte di memoria.
Puoi schierarli fino a crinali di spavento
fissarli vacillare quando la pianura si oscura
attenderne il ritorno ora che il cane tace
e la mente si spegne
per un attimo forma senza male
anima del geranio
teso sulla ringhiera.

Antonella Anedda

Cozzoli:Anche questo ti riporta al rapporto tra quelle voci e la scrittura. Mi è parso di vedere a volte in quello che scrivi come una difesa della parola dalla letterarietà e dal gioco accademico, istituzionale, e come un andare della autentica scrittura verso "altro", senza sapere bene cosa sia e dove si trovi e perché ci chiami questo "altro". Questo implica quella segreta relazione che lega scrittore e lettore, entrambi posti in relazione a questo "altro".
Anedda: Credo di aver capito. Non so se veramente è un altrove. Effettivamente è un luogo difficilmente definibile, che però, ecco, non è un altrove che direi mistico. È un po’... adesso mi viene in mente una cosa che si dicono Benjamin e Scholem: "Come sarà l’aldilà?". "Ma,tutto sarà come adesso:il bambino dormirà nella stanza vicina, tutto sarà come adesso,solo leggermente diverso". Allora, se c’è un altrove, è così, in questo "solo leggermente diverso".
Cozzoli: Questo mi fa tornare in mente una poesia di Holan ("La risurrezione dei morti")che si chiude con questi versi: "La prima ad alzarsi/sarà la mamma... Sentiremo/che piano piano accende il fuoco,/mette l’acqua sul fuoco piano piano/e con semplice mano prende dalla credenza il macinino del caffè./Saremo a casa un’altra volta". Sì, solo che la "casa" sarà "leggermente diversa". Sì, sarà per sempre un altrove che salva la fisicità, tutte le cose create, la loro vita. Anedda: Esatto,esattamente come questa poesia.
Cozzoli: Vorrei, per chiudere questo nostro dialogo, parlare un poco della responsabilità del poeta, della autenticità della sua parola, che non può rispondere solo a statuti retorici o stilistici o di poetica più o meno di moda. Qui infatti passa il segreto spatiacque tra poeta e poeta, tra poesia e poesia.
Anedda: Forse la prima responsabilità è rispetto il dono. Io non so se ho il dono (lo dice ridendo), però, se ce l’ho, è questo aver potuto parlare. Questo è stato un dono, mentre c’è tanta gente che muore con le parole in gola. A volte forse il poeta può dare parola a quelli che per varie circostanze non hanno parola e muoiono con qualcosa di inespresso. E aggiungo un’altra cosa: responsabilità è anche sentirmi un po’ in resistenza, per dialogare col mio tempo. Anche in solitudine. Questa solitudine, però, è anche un dono, una vocazione, un coraggio. Responsabilità è un rispondere, un rispondere di se stessi, certamente. La poesia non ha a che fare con la soddisfazione di se stessi.
Abbiamo finito. La ringrazio a nome di tutti noi.

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