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Laura e la storia |
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La mia bimba (solo nove anni: ma com'è già adulto quello sguardo!) non perde una battuta di quanto le dico, anche quando sembra distratta. Si è accomodata in poltrona e socchiude gli occhi al sole, come un gattino beato; la compagnia della mamma le rende sopportabili persino questo genere di argomenti. Ha la mano appoggiata su un piccolo libro che si chiama Auschwitz spiegato a mia figlia, scritto dalla francese Annette Wieviorka. "Chissà cosa avrà spiegato alla sua bambina, questa signora -mormora sospirando - Questo nome tedesco però non mi dice niente di bello. Tu ne parlavi ieri col papà. Ho già capito che si tratta di una cosa cattivissima. Con Laura abbiamo visto, qualche settimana fa, buona parte di Train de vie, in italiano (Un treno per vivere), un delizioso film del regista romeno Mihaileanu. Come si è divertita davanti a questa storia sospesa tra fiaba e realtà (una piccola comunità ebraica che si trasferisce a bordo di un finto treno di deportati, per sfuggire ai nazisti), piena di personaggi simpatici, in una girandola di battute e situazioni tipicamente ebraiche, che lei ha perfettamente capito, con un minimo aiuto da parte di noi genitori.
E che morso di amarezza, alla fine, scoprire che questa fantasmagorica avventura piena di colpi di scena è forse solo un sogno, naufragato dietro il recinto di un lager... Certo, non è facile parlare di queste cose ai bambini. La sostanza della Shoah è a loro perfettamente incomprensibile. Benché assistano tutti i giorni (magari per caso e per pochi istanti) alle ordinarie tragedie imbandite dai telegiornali, non riescono a concepire che un popolo possa essersi dedicato, attraverso l'azione diretta o attraverso un consenso strisciante, imbottito di pregiudizi e di indifferenza, alla distruzione (potenzialmente totale) di un altro popolo. Sapere che anche noi italiani abbiamo dato il nostro contributo a una simile operazione, la riempie di rabbia, di incredulità. "Ma mamma, i nostri amici di Milano... Io lo so che sono ebrei, ma cosa c'entra?" ribatte incredula. E poi, pensierosa: "Però queste cose succedono quasi uguali anche adesso, l'ho visto in TV. Quei bambini dell'Africa... Ma come si chiamava il Paese?". Laura sta pensando al Ruanda e io sono paradossalmente felice, nonostante la tragica associazione di idee: felice perché lei ha capito, ha colto la sostanza, come al solito. Ci sono ancora popoli che desiderano l'uno la cancellazione dell'altro. Ci sono uomini che considerano i loro simili un semplice bersaglio, una cosa, un ostacolo da abbattere. Se è per questo - aggiungo - non c'è solo l'Africa con le sue tribù. Ci sono problemi del genere nella vastissima Asia. E soprattutto, piccola mia, ce ne sono qui, dall'altra parte dell'Adriatico, nella nostra Europa così progredita e civile, che ha già conosciuto lo sfacelo delle guerre mondiali e doveva esserne uscita rinnovata. E invece: la Bosnia, il Kosovo... |
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