Servizio Speciale
Angelino un pò mariuolo
Parte prima
Papa Giovanni parlando di sé bambino e della sua famiglia scrive: «La nostra vita era serena, eravamo contenti della nostra condizione e fiduciosi nell’aiuto della Provvidenza.
Alla nostra tavola mai pane, soltanto polenta, niente vino ai ragazzi; raramente la carne; appena a Natale e a Pasqua una fetta di dolce casalingo… Eppure quando un mendicante si affacciava alla porta della nostra cucina, dove noi ragazzi attendevamo impazienti la scodella di minestra, un posto c’era sempre e mia madre si affrettava a far sedere quello sconosciuto accanto a noi…».
Sereno sì, ma che fame! Tanto che Angelino fu sorpreso a rubare. L’episodio, anzi, per la verità, gli episodi di questi furtarelli, perché furono più d’uno, si trovano raccontati quasi alla stessa maniera nella maggior parte delle sue biografie. Non occorre andare dunque troppo per il sottile nella scelta.
Li ho trovati, sia pure accennati persino nel libro «I peccati di Papa Giovanni» del sacerdote Franco Molinari. Non si tratta di un testo scandalistico nel senso più comune del termine ma di un tentativo serio e finalizzato per una riscoperta più umana, meno mitica della figu-ra di papa Giovanni.
Di furtarello, o di appropriazione indebita di cibo il nostro Angelino fu colto la prima volta a 8 anni, poco più poco meno, in flagrante. Stava malissimo e in dispensa la scorta dei fichi secchi era paurosamente diminuita.
Fu costretto a confessare; e oltre al mal di pancia una sgridata della madre, di quelle aspre, come precisano i biografi. Due peccati in un colpo solo: furto e gola! Era troppo piccolo per invocare Dante e scolparsi che più che la gola «potè il digiuno».
Per la polenta la faccenda era stata un po’ più complicata. La madre s’era accorta che la polenta avanzata dal desinare di mezzogiorno (nelle famiglie numerose se ne faceva oltre il fabbisogno perché ce ne fosse anche per la cena) da vari giorni dava segni di alleggerimento e di rimpicciolimento, senza che se ne potesse dare una ragione.
Topi no, perché appariva tagliata regolarmente e fino a prova contraria i topi, o i gatti o magari le galline, non sanno usare né spago né paletta (gli arnesi con cui nel bergamasco si taglia appunto la polenta). C’era di mezzo sicuramente una mano d’uomo.
Ma chi era questo uomo che si prendeva una tale cura? Uno di casa, certo. Ma chi? Escogitò uno stratagemma. Spostò la polenta su una mensola molto in alto, appesa ad una parete della cucina, si nascose in un angolo e lì attese gli sviluppi degli eventi.
Non dovette aspettare molto. In fila indiana, uno dietro l’altro vide entrare in cucina la processione dei figli: Zaverio, Maria, Teresa, Ancilla e Angelino. Ci fu una specie di consiglio di guerra fra i cinque.
Poi Zaverio, che doveva essere il capo, prese una seggiola e fece cenno ad Angelino di salirci sopra per raggiungere la agognata polenta. Manco fosse stata il vello d’oro degli Argonauti! Angelino assolse la missione con coscienza pari all’impresa, raggiunse e afferrò la polenta e stava per passarla giù in basso ai fratelli, quando... la mamma sbucò dal nascondiglio.
Si lanciò su Angelino: «Proprio tu!...». Come Cesare, col «tu quoque, fili mi» scagliato contro Bruto. Il candido Angelino ebbe però la risposta pronta: «Ma che colpa ne ho io, mamma, se sono il più alto di tutti?».
I biografi si affrettano a precisare che la frase Angelino la pronunciò in bergamasco, e non stentiamo a crederlo: adorava la sua Terra e la sua lingua. Finì in risate.
Foto sopra: la casa natale a Sotto il Monte (Bg)

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