Giubileo e carcerati
Ammazza tu che ti sbudello anch'io!
di Spartaco Francesco Ciccotti
foto Alberto Marinetti
BRASILE 500 anni dalla scoperta Parte settima ed ultima
In una cella, dopo la lezione su Gertrude, sono rimasti fino a mezzanotte a discutere se la monaca era o no colpevole. Si sa che nella via di redenzione un argomento per portare l’esercitante a pentirsi è il giudizio che egli stesso deve dare di altri peccatori - angeli o uomini. Ed è chiaro che delinquenti senza morale che discutono la responsabilità morale di un delitto hanno già cominciato a redimersi, non sono più quelli di prima.
Dopo di una di queste lezioni suor Barbara, che prestava qualche assistenza ai detenuti, ha domandato a Ben-Hur se lo studio de “I Promessi Sposi” gli piaceva. E l’uomo ha risposto: «Sì, ma preferirei essere un analfabeta per non dover imparare a condurre una vita onesta e coraggiosa, che ormai io non posso più vivere».
L’imprevedibile è accaduto quando siamo giunti ai capitoli 20 e 21 sull’Innominato. Io davo le mie lezioni con calcolata freddezza, perché la forza del messaggio doveva essere attinta non dalla parola del professore ma dalla lettura della pagina manzoniana.
Mi limitavo a un breve riassunto, a brevi commenti, a raccomandare che sottolineassero alcune frasi che valeva la pena ricordare.
La lezione sui capitoli 20 e 21 è stata la più fredda, anzi la più stentata, di tutto l’anno per la semplice ragione che quel giorno la grippe, raffreddore o influenza comune in Brasile, mi aveva buttato giù.
Tuttavia, quando nella settimana seguente sono ritornato per dare una nuova lezione, suor Barbara mi è venuta incontro: «Sapesse cos’è successo! Ben-Hur m’ha detto che vuole parlarmi, non per pochi minuti, ma per un paio d’ore. Sono tutti sconvolti. Parecchi hanno passato la nottata in bianco piangendo».
In classe li ho incontrati umiliati e commossi. Ben-Hur, seduto in un banco al centro della classe, aveva gli occhi rossi, rossissimi, imploranti. A guardarlo mi turbavo, adesso, per un’altra ragione, e non riuscivo ad andare avanti. Per continuare la lezione sui capitoli 22-24 ho dovuto dare la sinistra alla scolaresca e parlare fissando la parete laterale.
Era più che evidente che l’analisi del grande romanzo martellava quei cervellacci: «Il tormentato esaminator di sè stesso si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo.
Separata da sentimenti che l'avevan fatta valere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione...».
Dopo la mattinata spesa nel penitenziario, tornando a Porto Alegre dopo esser stato testimone allibito dell’efficacia della prosa manzoniana, mi dicevo: «Se Manzoni provoca tanto pentimento negli assassini, io sono un vigliacco se non do al Brasile “I Promessi Sposi».
Sedici mesi più tardi, tempo ragionevole per vedere se la lezione era stata fuoco di paglia o risoluzione sincera, la direzione di Jacuì ha incaricato un avvocato e psicologo, una sociologa e il proprio direttore di fare una ricerca di attitudini e comportamenti per sapere cosa era rimasto del corso su “I Promessi Sposi”. Essi hanno indicato su colonne diverse il nome del condannato, il motivo della pena, la condotta antecedente e quella seguente allo studio del romanzo del Manzoni.
Era la realizzazione del sogno, l’èureka del mio apostolato. In una prigione dove in genere i detenuti peggiorano moralmente, gli alunni del corso davano segni evidenti di miglioramento dei costumi e di accettazione della pena come espiazione.
Era il collaudo della ipotesi de “I Promessi Sposi” come antidoto contro l’omicidio. Era il maggiore impulso a consacrare quel che mi restava da vivere alla diffusione del grande romanzo, che ha la forza di muovere le montagne, convertire gli assassini, infondere l’amore alla vita propria e altrui e, per contrasto, l’orrore della sua soppressione.
Ma come diffondere il romanzo? Poco con una serie di lezioni a scolaresche, sempre limitate e quasi insignificanti in una popolazione tre volte quella italiana. Non con una traduzione come le altre, che hanno lasciato il tempo che hanno trovato e che, dal punto di vista editoriale, hanno significato un disastro. Ma con un laboratorio nel quale l’opera fosse tradotta e ritradotta varie volte con la collaborazione di professori e traduttori.
Con tale versione, in seguito, si potrebbe organizzare uno studio sistematico del romanzo in ambienti universitari e in altri ambienti, dai quali uscirebbero anche i professori-orientatori di futuri corsi per detenuti e per persone di tutte le classi sociali.
Cominciava così l’odissea di una traduzione, il gran cimento dell’Istituto Brasiliano di Studi Manzoniani.

Sommario