Un fiore, una leggenda
GERANIO
e la montagna turchina
di Adelio Bianchini
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Parte seconda ed ultima
Fu come una seminagione varia e ricca fatta dall’uragano devastatore. Pochi mesi dopo la Montagna turchina si trasformò in un giardino strano ma meraviglioso mai visto dagli indigeni in quella desolata parte dell’Africa.
I cactus, le euforbie, le mammillarie, tutte le piante grasse del continente africano avevano trovato su quel monte la possibilità di vivere. Alcune piante, piccole come una noce o grosse come la testa di un uomo, innalzavano dalla terra i loro globi; parevano dei gomitoli di spine bionde, talune con minacciose catapulte dalle lunghe spine.
Dagli spacchi più profondi uscivano dei cactus verdi, azzurrognoli, fulvi, dei veri serpenti del regno vegetale striscianti fra le rocce, lunghi e insidiosi.
Nel nuovo mondo della natura, nel groviglio di spine, peli, lanugini, polipai verdi, lingue carnose, villose, rugose, verrucose si innalzavano le Aloe, i Nidularium e i Cereus giganti con le loro colonne verdi e glauche i quali guardavano, pareva con compassione, gli Echinocactus, i Kotucactus e le mammillarie nane che erano ai loro piedi, come sudditi e plebe. Quell’immenso roveto di carni vegetali verdi, di spine, di polipi, di lingue, di braccia contorte incuteva terrore più che ammirazione e il grottesco si intrecciava intimamente con il sublime.
Il color verdiccio, l’azzurrognolo, il glauco, il livido avevano escluso da quel vasto agglomerato di piante grasse (nome improprio giacché è esatto dire piante succulenti per la particolare struttura del loro tessuto connettivo) il verde tenero del grano nascente, il verde gaio e lucente del gelso, tutti i verdi giovani del mondo vegetale. Anche il verde pareva cianotico in quell’inferno malato di itterizia.
Però, quasi per contrastare quella patologia e quel mostruoso grottesco, le piante succulenti, nane o giganti, si ornavano di fiori fiammanti, lucenti, voluttuosamente carnosi, senza steli, e ne spiccava un calice di porpora dalle cui labbra pioveva una cascata di stami o di pistilli d’argento.
Per la prima volta la Montagna turchina si vide costellata di fiori. Il deserto era divenuto un giardino: le api si posavano sulle corolle dei cactus e qualche uccello, dopo aver trepidato nell’aria, si posava sui fiori dei mostri vegetali.
Ma la Montagna turchina non era del tutto soddisfatta, anzi continuava a invidiare i prati fioriti. A chi giova, si chiedeva la Montagna, aver dei fiori se nessuno li può cogliere, se sono destinati a divenire putrescenti sulla pianta che ha dato loro la vita ?
L’insoddisfazione fu raccolta dal sole, il quale, dice la leggenda africana, si persuase delle buone ragioni della Montagna. «Preparami un po’ di terra - disse il Sole - e io vedrò di farvi nascere qualche pianta gentile che le donne possano cogliere e offrire.
Devi ricordare che se tu desideri una cosa legittima, io devo aiutarti, e se io esprimo un desiderio che tu possa soddisfare anche tu mi devi aiutare. Tutti dobbiamo aiutarci a vicenda, rammentalo sempre».
La Montagna turchina sospirò, ma non potendo fare altro, attese che il buon Dio avesse tempo per provvedere. E provvide, non con un altro uragano, bensì con l’evoluzione del grande processo esistente in natura.
Le foglie carnose delle piante succulenti cadevano al suolo quand’erano vecchie e i fiori appassiti e le spine e le lanugini si ammucchiavano lentamente riempiendo le fessure della roccia, e poco a poco sottili nastri di terriccio disegnavano una rete sulle sterili rupi.
Quella terra era poca ma fertile, bruna, odorosa. Quando la Montagna vide quel tesoro richiamò il sole e questi confermò ch’era giunto il momento per la nascita di un fiore gentile con cui fare delle ghirlande e dei mazzi.
«Puoi dirmi quale fiore vuoi?» chiese il Sole.
«Io voglio una pianticella - disse la Montagna turchina - senza spine, senza un solo pelo ruvido, che abbia le foglie simili ai velluti, che sia dolce accarezzarla al pari della guancia di un bambino, come il seno di una fanciulla.
E desidero che questa pianta dia molti fiori di vario colore: scarlatti come la fiamma del primo amore, di un rosa pallido simile al viso di una donna che sviene di voluttà, che abbia la tavolozza rosea del viso delle donne innamorate, delle labbra femminili sussurranti parole d’amore».
«Tu domandi molto, cara Montagna turchina», obiettò il sole.
«Nulla che tu non possa darmi : io ti domando una sola pianta, un solo fiore, mentre i prati e i campi ne hanno mille, centomila. Accontentami, Sole».
Fu così che il sole, finalmente convinto, fece nascere sulla Montagna turchina il geranio, dalle foglie profumate, e che nei suoi fiori offre con dolcezza tinte delle labbra, della pelle, delle carni delle fanciulle.

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