Un fiore, una leggenda
GERANIO
e la montagna turchina
di Adelio Bianchini
Copyright S.I.A. Stampa Italiana Associata
Parte prima
La leggenda del geranio è riportata in un antico manoscritto in lingua araba miracolosamente trovato da un prete abissino. La sua veridicità, confermata dal fatto che inizialmente il pelargonio, vero nome del geranio, ha fatto la prima apparizione nelle regioni temperate e subtropicali dell’Africa.
La sua storia è cominciata fra i pittoreschi monti che circondano Massaua, ed è una storia affascinante e non contaminata all’inizio dall’intervento dell’uomo. La terra, il sole e Dio hanno voluto donarci questa piccola pianta i cui fiori hanno una tavolozza di colori alla quale di certo si sono ispirati per le loro fantasie cromatiche i più famosi pittori.
Per dare un’idea di questa tavolozza dirò che ci sono gerani color rosso scarlatto, bianco puro, color salmone, rosso arancio vivacissimo, rosa vivo, rosa antico, rosso rubino, viola, bianco argento, oro con macchie irregolari di porpora, rosso, color crema, verde e verde argento.
Anche le foglie hanno una notevole gamma: oro, rosso, tricolori, bronzo, verdi, glauche, color carota.
Ma veniamo alla leggenda.
Fra i monti di Massaua ce n’è uno che in un’epoca remota fu battezzato dagli indigeni con il nome di Montagna turchina, forse per il colore azzurrognolo della sua roccia o perché, essendo più alto degli altri monti vicini, alza la sua testa nei campi azzurri del cielo.
Nell’antichità quel monte non aveva una zolla di terra fertile, neppure una goccia di sorgente che lo bagnasse. C’erano soltanto pietre su pietre e rupi scoscese e spaccature profonde nelle rocce dove, se il vento portava qualche foglia dalle foreste lontane oppure qualche seme dai prati, un altro vento li spazzava lontano.
Gli animali fuggivano da quel deserto ossuto giacché non vi era nemmeno un ciuffo d’erba per pascolare, neppure un fiore per gli insetti, le api e le farfalle e le cocciniglie, tanto meno un solo ramo di albero su cui gli uccelli potessero posarsi tra un volo e l'altro.
Era veramente una desolazione fra il cielo e la bassa pianura. L’uomo che vi si fosse avventurato nelle ore calde della giornata avrebbe avuto gli occhi abbacinati e i piedi bruciati, anche se fossero stati protetti da un sandalo.
Un giorno si avventò sulla Montagna turchina un formidabile ciclone che giungeva dagli altipiani dell’Abissinia ed era impetuosamente diretto fino alla costa. La Montagna fu avvolta dal suo turbine.
L’uragano, che per tutta la zona fu causa di sterminio e di distruzione, fu invece per la solitaria, desertica località, una sorgente di vita feconda destinata a trasformarla.
L’immane tromba d’aria che con il vortice delle sue colonne aveva sradicato nella pianura molti alberi, travolto un mare di messi e falciato tanti prati, portò invece sulle sue ali un nugolo di semi di piante grasse che insieme a pulviscoli di terra si deposero nei crepacci, nelle spaccature, nei ripostigli più nascosti e inaccessibili del monte.

Sommario