ATTUALITA' E CULTURA  
Copertina del mese di Luglio 2001
Copertina del mese di Luglio 2001

Vittorio Sgarbi - Foto Calloni
Vittorio Sgarbi
Foto Calloni


Vittorio Sgarbi - Foto Calloni
Vittorio Sgarbi
Foto Calloni


PERSONAGGI DELLA CULTURA E DELLA POLITICA SI CONFESSANO...
E DICONO COSE CHE NESSUNO SAPEVA



di Fausto Marinetti

“Io, ateo, meglio, agnostico, vivo nel campanile d’una chiesa…”

Prof. Vittorio Sgarbi, via dell’Anima 31, Roma. Un balcone su piazza Navona, l’appartamento del fu papa Innocenzo X. Un piéd a terre di 300 metri quadrati, un museo personale, biblioteca, mini-galleria, nella quale non trovo un solo ritratto del suo inquilino. Ma tutta la casa è il ritratto di lui: un inno all’arte, un sudario che lo avvolge. E, dentro, c’è lui, il professore che, quando parla, pare ascoltarsi. Busti, quadri, rilievi, medaglioni, vasi, cimeli, obelischi, cortine, busti, terracotte: la sua famiglia, i suoi parenti adottivi, con i quali convive, passa il giorno e la notte. Perfino il bagno è un prolungamento della casa-museo: anche qui libri, quadri, opere d’arte, compreso un busto di Mussolini. Al mio stupore, l’arredatore cita il professore: «Il Duce sta nel luogo che si merita, perché mi fa venir voglia di…».
Il suo architetto personale, Dario Del Bufalo, cita gli autori delle molteplici opere d’arte: Allegrini, Cozza, Pietro Liberi, Cibey, Filippo Napoletano, Marinari, il capolavoro di Giovanbat-tista Amendola. M’introduce nella “camera dell’oppio”, passiamo nel tinello, la camera da letto degli ospiti, tutta scarlatto anche il baldacchino e l’alcova.
Una piccola stele recita: “Ci sono garbi e sgarbi, cortesie e scortesie”. Fuori, lì sotto, scorre piazza Navona, un museo umano. È la piazza che papa Innocenzo ha fatto riempire d’acqua come usavano i romani per giocare alle guerre navali. Il professore ha eletto questo appartamento, perché anche lui, forse, si ritiene un po’ un “pontefice” in campo artistico e, in Tv, pontifica “garbatamente sgarbato”. Si guarda attorno, si muove da una stanza all’altra, risponde all’intervista, sbircia sempre la Tv su schermo gigante, gli sfugge qualche commento alle soubrettes, che sovrabbondano in ogni canale. Oggi, poi, assieme ai cappuccini che sono venuti ad intervistarlo, c’è un’ospite speciale: la divina Gina (Lollobrigida), che se ne sta, per tutto il tempo dell’intervista-fiume, sull’orlo del divano di raso, rannicchiata nella sua bellezza sfiorita.
Insiste, lo stroncatore nato: «Io, ateo, meglio, agnostico, vivo nel campanile d’una chiesa…». E sembra aver detto tutto di sé. Emiliano d’origine, uno che il gusto di vivere ce l’ha a fior di pelle. E non lo nasconde, né occulta l’autostima: «Io non mi sento superiore, lo sono». Eppure l’incontro è caloroso: «Ah, siete giornalisti di una rivista dei cappuccini? Ho ammirato padre Mariano da Torino, sono amico di Mons. Gioia…». E ci tratta come gente di casa. Fuori dalla finestra, la più famosa fontana del mondo, quella del Bernini, canta la sua canzone e Sgarbi la sua.
Come mai ha scelto per casa un appartamento-museo?
Questa è la casa di Innocenzo X, la cui cognata, Olimpia Panfili, detta “Pimpaccia”, fu una donna di grande carattere. Era talmente importante che, nelle apparizioni in pubblico, la sua sedia risultava in posizione preminente rispetto a quella del papa, che pur era un uomo straordinario, ma doveva gran parte del suo destino a questa donna. Il Bernini era in disgrazia e a farlo lavorare per la fontana di piazza Navona è stata proprio la Panfili, la quale fece vedere un bozzetto al cognato ed il papa gliela fece realizzare.
Il mio gusto collezionistico è nato nel ’78 con Mario Lanfranchi. Con il suo appartamento pieno di quadri, mi fece capire che era possibile non solo studiarli, ma anche acquistarli senza spendere miliardi. Quando ho visto questo appartamento mi son fatto l’idea che non era giusto abitare a Roma se non in una casa barocca. È un luogo in cui la temperie religiosa e la pittura barocca si esprimono in massimo grado. Il fatto curioso è che si tratta di un appartamento segreto del papa. Noi, qui, siamo dentro il campanile e il papa, affacciandosi al balcone, benediceva il popolo e si godeva lo spettacolo, quando faceva allagare Piazza Navona per la battaglia navale. L’aspetto attuale della piazza risale alla sistemazione finale, seicentesca, voluta dal papa del Bernini e del Borromini. Altri tempi, altri costumi: nella sua camera da letto abbiamo gli affreschi dell’Allegrini con gli amori di Enea e Didone. Io ho trovato così singolare questo luogo, che ho deciso di prenderlo. Sembra di stare su un balcone veneziano. Non soltanto si è come sospesi, ma hai la sensazione di essere a Venezia, dove ho abitato, perché senti il rumore dell’acqua.
Quale ricordo dell’infanzia?
Tutto, dalla prima ora all’ultima. Le mie gesta memorabili risalgono a nove anni quando m’innamoro di una ragazza, Sandra, dalla lunga treccia. Il mio spirito cavalleresco si manifestava così: salivo in corriera a Rò quando i sedili erano quasi tutti occupati e le tenevo il posto, in maniera tale che la sua poltrona era garantita. Dalla quinta elementare alla terza media frequentai i fratelli delle scuole cristiane in un istituto molto chic. Ho un’antipatia assoluta per i preti. Anzi no, antipatia no, i fratelli delle scuole cristiane erano anche simpatici con quel bavaglino bianco. Don Guerriento mi dava tre, quattro ostie per volta. Poi c’erano i prefetti severissimi, per cui tu dovevi andare sempre in fila. Un giorno, in paese, vado su l’autoscontro e trovo una ragazza; arriva quel benedetto prete e dice: «Tu no, salgo io!».
Ricordo la prima esperienza romana, un viaggio con lo zio alla cappella Sistina. Mi sembrò imponente.
Nel sito internet si dice di lei: «Miscela esplosiva di vitalità e di coraggio…». Può esemplificare?
In Polonia mi sono trovato davanti ad una famiglia distrutta. Vicino a Napoli sono arrivato in tempo per togliere la madre e la bambina dalle lamiere. E questo è un dovere di tutti. Ma gli atti di vero coraggio, per me, sono quelli di pensiero quando tutto il conformismo dilagante e volgare decide che uno è un criminale e poi non lo è e tutti quelli che gli hanno leccato il culo, gli voltano le spalle. Il coraggio, nel mio caso, è temerarietà, una forma di incoscienza. Io l’ho manifestato in tempi piuttosto recenti, sostenendo l’innocenza di Andreotti, mentre tutti erano convinti che fosse un mafioso. Ci voleva molto coraggio in parlamento, nelle strade, sui giornali. In parlamento ho visto tutti alzare la mano contro di lui. Mi sono preso delle querele. Questo il principale atto di coraggio della mia vita: non aver accettato il giustizialismo anticristiano, per cui bisogna trovare qualcuno che è colpevole senza capire che bisogna vedere fino a che punto lo è. Anche molti preti l’hanno riconosciuto e me l’hanno scritto: “Operazione eminentemente cristiana”. Ho difeso le vittime di un furore popolare, che attribuiva loro delle responsabilità storiche. Ma ciò che deve muovere l’azione penale è la responsabilità individuale, cioè il reato che uno compie. Quando vedo Andreotti vedo un “Cristus patiens”. Dico di lui per dire del più noto, ma ce se sono tanti, che mi sono riconoscenti come se io avessi svolto una funzione cristiana. Era troppo facile stare con i Di Pietro, con gli Orlando, con quelli che contano. E questo è stato un atto di coraggio perché ero completamente solo. Io sono stato l’uomo più coraggioso d’Italia quando era difficile esserlo. Oggi sono coraggiosi tutti!
Come è stata la faccenda del collegio?
Mi ci hanno messo i genitori per evitare di svegliarsi alle sei del mattino. Stavamo in campagna, dovevo prendere il pullman per arrivare a scuola alle otto. Dopo qualche anno di questa pena, hanno ritenuto opportuno mandarmi in collegio, non per punizione, ma per convenienza. La cosa per me non migliorò, perché quei pazzi di salesiani ci svegliavano alle sei per le preghiere, la messa. Io avevo escogitato la mia resistenza: leggevo in chiesa i “Fiori del male” di Baudelaire, un libretto talmente piccolo da sembrare da messa. Per complice, un prete. Avevo mille problemi con i sacerdoti che mi proibivano di leggere. Mi sequestrarono “Senilità” di Italo Svevo e chiamarono i miei genitori per processarmi. Tutto proibito, si salvava solo Cuore e Pinocchio. Eppure il direttore mi suggerì la lettura de “I dolori del giovane Werter”. Era proibito e non so ancora perché me l’ha consigliato.
L’autore preferito?
All’epoca, Cesare Pavese, una specie di Leopardi moderno. Lo sentivo più vicino, perché scriveva dei nostri turbamenti: infelicità, difficoltà di vivere. Ma anche per lo stile molto vitale, franco, accattivante, spavaldo, non accademico e paludato come D’Annunzio. Pavese è un intimista, un narratore che trasferisce se stesso dentro i personaggi. E poi quella infelicità, quel disagio, qualcosa che sembrava appartenermi. Uscendo dal collegio il mercoledì si andava in città ed io entravo in libreria e compravo poeti come Apollinaire, così beffardo, scanzonato, e poi i poeti francesi del surrealismo, le avanguardie.
E la passione per l’arte?
È nata tardi. A 14 anni, a Padova, la cappella degli Scrovegni non mi fece nessun effetto. La poesia, per me, era solo nella letteratura. A 18, convinto di fare il critico letterario, trovai professori talmente poco appassionanti, che seguii lezioni di estetica e di storia dell’arte e trovai formidabile Francesco Arcangeli, il primo allievo di Roberto Longhi, un pazzo scatenato, anarchico. Era in crisi, però era appassionante. Ci portava in giro per l’Italia, per il mondo, a Parigi per la mostra dei pittori romantici. Mi fece capire che l’arte e la vita sono la stessa cosa, che l’arte è una espressione formidabile della vita, cosa difficile da intendere quando ci facevano vedere Giotto in bianco e nero. Lui fu capace di trasmetterci delle emozioni. Poi, siccome l’arte è legata al viaggiare, quando mi regalarono la prima automobile, cominciai a girare l’Italia. Per me era un imperativo morale rispettare certe scadenze: patente a 18 anni, laurea a 22, senato a 40, poi il parlamentare, presidente di commissione a 50. Avevo maggior curiosità per la scultura che per la pittura e la letteratura, di cui mi piacevano i manifesti di comportamento come il manifesto futurista, il manifesto surrealista, tutto quello che si vede nei film di Bunuel.
La prima opera che ho guardato da innamorato d’arte, è stata quella meravigliosa donna che è “Ilaria del Carretto” di Iacopo della Quercia. Una grande scultura su cui ho scritto un pezzo, per il quale ho ricevuto tanti complimenti. Avevo trasmesso non solo la sua importanza storica, ma anche le mie emozioni. Da ragazzo, con i genitori, andavo a trovare Murer, uno scultore di Falcade vicino a Belluno. E poi Servolini, grande xilografo, ed il vicentino Neri Pozza, editore, poeta, scrittore, scultore. Questi tre autori contemporanei erano stati il mio primo, sia pur embrionale, segnale d’attenzione per l’arte.
Perché tanta passione per l’arte?
Perché comunica in modo inequivoco. O uno è sordo, oppure ti trasmette lo spirito. Se Dio dovesse esistere, il segnale della sua esistenza, più d’ogni altra cosa, è l’arte, perché è una visione intuitiva e non razionale della realtà. Pascal diceva che il cuore ci fa capire quello che la ragione non capisce. L’arte è anche struttura razionale del pensiero, della forma, ma quello che c’è dentro è una dimensione emotiva e spirituale, che tocca quella parte di noi che chiamiamo anima. Non c’è niente che fa fremere l’anima più dell’arte. Se uno dovesse tentare di dimostrare l’esistenza di Dio, per me indimostrabile, uno degli elementi probanti potrebbe essere l’arte: l’uomo riesce a creare nella pietra e sui muri, aggiungendo alla natura qualcosa di suo esattamente come Dio ha fatto con l’uomo. Il principio creativo dell’artista è quello che più di tutti è analogo allo spirito creatore. Quando uno vede Michelangelo gli viene il dubbio che Dio esista veramente, perché quella conoscenza intuitiva ti fa sentire qualche cosa di metafisico. Un’opera d’arte come “L’infinito di Leopardi” comunica sempre e a tutti la stessa cosa. Uno può capirla meglio, l’altro peggio, ma è sempre la stessa emozione. Innesca una comunicazione universale, non parziale, né individuale. Uno non è né storpio né gobbo come Leopardi però vale anche per lui ciò che egli dice del suo “natio borgo selvaggio”: in quel momento la sua condizione interiore diventa universale. E tu ti prospetti in essa, benché non sia la tua. La poesia riesce a farti partecipe di sentimento che non ti appartiene.
Se Dio esistesse, potrebbe essere un artista?
Dio è un artista. La bibbia dice che ciò di cui non sappiamo niente non possiamo parlare. Quindi Dio è l’ineffabile. Poi se uno ha la fede e vuol crederci ci crede. Però è certo che Dio è un creatore e l’artista è un creatore anche lui, mentre il filosofo non è un creatore, o lo è solo in misura razionale, mentre l’artista è creatore in misura razionale ed emotiva insieme. Un’opera d’arte ti comunica sul piano razionale e sul piano emotivo. Uno guarda un quadro di Botticelli, non lo capisce, ma gli comunica lo stesso, perché il bello dell’arte va oltre la comprensione razionale, è di natura emotiva. Ora, quando Dio crea, opera una sintesi di razionale e di emotivo e in questo senso è un artista.
Che rapporto c’è tra lei e quel Dio che gli hanno insegnato i salesiani?
Se leggete il mio articolo di oggi sul Giornale capite che non c’è nessuno più apocalittico di me, perché più che la giustizia degli uomini - spesso ingiusta - temo quella di Dio, ove Dio esiste anche solo come speranza. Il tema di Dio me lo pongo, perché l’immagino interessato all’uomo, non un Dio distratto, perché il Dio panteistico, o anche un Dio interessato a cose più grandi, sembrerebbe colpevole di distrazione. Quando viene violentato un bambino, dov’è Dio? Ti viene il dubbio che non esista: perché, come mai è così distratto, perché non si deve occupare di noi? Gli uomini chiedono a Dio non solo la salvezza eterna, ma di avere un aiuto qui. Lo preghi per ottenere un miracolo, perché t’aspetti che intervenga nelle cose umane. Invece talvolta non interviene. Se interviene, guarisce uno storpio, risuscita un morto. Dimostrando questo, Gesù ha dato la sensazione che Dio sia implicato nelle vicende degli uomini. Ho scritto proprio su questo argomento: “Il Dio di cui ci hanno parlato è un Dio giusto: premia i buoni e punisce i cattivi. Ma non soltanto nell’aldilà, qui sulla terra Dio è grande e misericordioso e a Lui l’uomo chiede protezione. Lo stesso Cristo sulla croce si rivolge al padre e chiede: Dio mio, perché mi hai abbandonato? La vera prova è credere in Lui nella disgrazia, nella sventura quando non abbiamo segni della sua benevolenza. Io spero che Dio esista e che non sia indifferente, che punisca chi si ostina a fare il male non per errore ma per protervia. Sarebbe veramente triste pensare che Dio è lontano, distratto, come talvolta suggerisce una violenza troppo forte, che l’uomo, senza che Dio l’impedisca, fa patire agli innocenti. Mi chiedete perché faccio queste riflessioni, che faccio ovviamente quando per crudeltà o per follia viene colpito un bambino, viene aggredito un lavoratore. Penso invece all’intollerabile ostinazione che porta per la seconda volta Andreotti e Vitalone davanti un tribunale con l’accusa di omicidio. È intollerabile che la nostra giustizia costringa due conclamati innocenti a un sovrumano sforzo di pazienza. Per i loro accusatori io aspetto il giudizio universale”.
Allora io l’idea di Dio ce l’ho come un Dio che interferisce. Se non interferisce è un po’ peggio. A Pozdnam in quell’incidente io non potevo fare niente: la madre era saltata fuori e piangeva; poi c’era un morto secco, il padre che guidava; e una bambina che mi è morta mentre cercavo di estrarla dalla macchina, ancora viva, faticava a respirare, era intrigata nei sedili e l’ho vista morire lì. Perché doveva morire quella bambina? Un problema teologico grandissimo. Queste cose qui ti mettono in uno stato di allarme rispetto al tuo rapporto con Dio, poi, naturalmente, uno può credere anche nella disgrazia, ma è vero che l’uomo spera che Dio intervenga.
Lei non prega mai?
No. Io sono tendenzialmente ateo. Il mio rapporto improprio con un Dio trascendente è quello di “credere di credere”. Il credere mi pare un atto di presunzione, perché tu ti metti lì e dici: «Sai che faccio? Io credo in Dio». E con quello ti rassicuri, perché lo preghi, ci parli, vai in chiesa. La formula che rappresenta meglio questa situazione è quella di Tertulliano: “Credo quia absurdum”. L’unico motivo per credere è perché avresti tutte le ragioni per non farlo. Allora lì nasce la posizione pascaliana delle ragioni del cuore. Essendo io un illuminista ed un razionalista, tenderei a non credere ma, siccome non si può escludere niente, non posso dire: «Non c’è Dio». Credere non è un dono che hai, ma un dono che ti dai.
E Gesù di Nazaret? Questo non è un Dio astratto.
Il problema di Gesù non è risolto. Per me resurrezione ed ascensione sono dei dati presunti, comunque dei misteri. Che non ci sia il corpo di uno non è ancora la prova che è risorto. Abbiamo l’assoluta certezza dell’umanità superiore di Cristo, ma questo non coincide con il fatto che sia Dio. Può essere un grande profeta (come per ebrei e musulmani) senza essere Dio. Le storie narrate dai vangeli descrivono i miracoli e le azioni di un grande uomo, che poi sia Dio è un atto di fede.
Ma il suo messaggio, la sua persona?
Pesa al punto tale che non c’è bisogno che ve lo dica io. Croce diceva: «Non possiamo non dirci cristiani». Ed io dico di più: «Non possiamo non dirci cattolici». Io sono cattolico, il più tenace sostenitore e difensore del mondo cattolico ma nella dimensione in cui il mondo cattolico si invera nella storia e cioè diventa il comportamento e la morale del cittadino italiano, del cittadino cristiano. Io posso essere agnostico e cattolico, cioè io sono iper-cattolico, perché sono di cultura cattolica. Non mi dico ateo, che vuol dire: “non credo in un Dio”, ma agnostico, cioè: “non so se c’è”. Io sospendo il giudizio di fronte a qualcosa oltre me. Però questo non preclude che io sia cattolico. Non credo ad un dialogo fra Dio e l’uomo, ecco perché non prego. Non mi metto a dire: «Gesù, fai…», perché non ci credo che lui possa fare, perché il Dio in cui credo è un Dio disinteressato agli uomini, quello che ha creato il mondo, che gli uomini sperano che si interessi a loro ma si accorgono poi che non si capisce per quale bizzarria o per quale distrazione, non avendo fatto niente di male, essendosi comportati sempre bene, ti muore un figlio. Allora tu ti incazzi, perché non puoi aspettarti che Dio sia lì per te e invece è quello che vorresti. Si ha una visione utilitaristica di Dio, ma è fallace, perché quando chiedi una grazia e ti aspetti che intervenga, lui non interviene.
Il Dio cui sono più vicino è quello spinoziano, “Deus sive natura”, un Dio che coincide con la natura, molto complesso rispetto a quello cattolico e nel quale il tema di Gesù non entra se non come profeta. È la prima volta che mi pongo il problema se Gesù sia Dio.Naturalmente lo accetto nell’iconografia e nella cultura cattolica di cui sono figlio.
Hobby?
Il mio hobby sono le ragazze. Non lo faccio contro Dio. Non bevo, non fumo, non mi drogo, ho soltanto una certa propensione per le belle donne.
Io parto da teorie bizzarre. Supponiamo: una madre raccomanda a suo figlio: «Se vai con certe donne stai attento, usa il preservativo». Questa frase, che è del 90 per cento delle buone mamme italiane, si scontra con la morale cattolica, che dice: «Per evitare ogni rischio, astenetevi». Ma siccome quelli scopano lo stesso, allora io noto delle contraddizioni nella chiesa. Come sul tema dell’Aids in Africa. Non puoi dire ad un africano di non scopare, quando hanno più di 3 milioni e mezzo di morti!
È chiaro che anche all’interno della chiesa c’è un dibattito sull’opportunità o meno del preservativo. Un problema troppo complesso, nel quale si deve cercare il minor male.
Cosa cerca nella donna: la madre, la sicurezza del ventre materno?
No, non ci penso neanche. Mia madre per me è come una compagna, una donna intelligente. Nelle donne cerco un piacere veramente effimero, ma non posso dirlo a voi preti! In questo sono, dal punto di vista eterosessuale, esattamente come un altro grande cattolico che è stato Testori. Quello più vicino a me è Pasolini, il quale di giorno era un grande intellettuale e poi di sera andava a battere finché ne è pure morto. Però era una visione pagana del sesso. Forse per loro era una questione un po’ complicata, la mia è una visione più semplice, gastronomica.
E il sentimento, il romanzo?
Il sentimento c’è per alcune persone. L’ammetto come opzione, non come necessità. Io una bella donna la vedo come una pesca, un cocomero.
Povera donna!
No, no, lei, la donna, può vedere me come una bistecca, che so io … è una visione, dico, agnostica.
Come è entrato in politica?
Nell’89 divento famoso in Tv attraverso una serie di battute piccanti: do della stronza a una poetessa (m’è costato 60 milioni). Poi viene: «Lo voglio vedere morto…», rivolto a Zeri. Creo degli effetti-bomba, che pubblico in “Davanti all’immagine”, titolo speculare rispetto a quello di Zeri: “Dietro all’immagine”. Il libro viene presentato in tutta Italia. Quando arrivo a S. Severino Marche il sindaco Dc mi pone il veto, perché lì Zeri aveva avuto un premio. Un gruppo privato si organizza, intervengono 1800 persone, si vendono 750 copie, una cosa sorprendente. Mi chiedono di candidarmi alle amministrative. Dico di no, perché mi faceva schifo la politica. Insistono. La settimana dopo accetto di candidarmi come indipendente nella lista dei socialisti. A S. Severino i Dc, pur di non avere me, fecero la prima alleanza con i comunisti. Io feci una grande campagna e feci cadere l’amministrazione, divenni sindaco (1990). Poi i socialisti (Covatta mi ha querelato perché gli ho detto: «Faccia di prosciutto») posero il veto alla mia candidatura alle politiche e accettai quella dei liberali. Una specie di maggioritario: ero stato eletto in una lista dei socialisti e venivo eletto al parlamento in quella dei liberali in Sardegna, dove da anni non vinceva un liberale e non era mai stato eletto uno non-sardo. Nel ’92 feci una bellissima campagna e fui eletto deputato indipendente dei liberali. Seguì la stagione di Berlusconi e Forza Italia, però non cambiò molto. Tutti mi sconsigliavano di candidarmi. Ma pensai: «Magari non avrò un momento in cui sarò così popolare come nel ’92, quindi è meglio che raccolga subito il consenso». Ebbi un sacco di voti. Nel mondo universitario m’era stato proibito l’accesso dalla corruzione dilagante; in quello della Tv ero una meteora, anche se resistente. L’idea del voto popolare, per me, voleva dire: avere una conferma di consenso senza concorso, cioè senza dover dimostrare nulla; lo vede il popolo chi sono, quindi è il test più importante. Ecco la ragione per cui, attraverso l’attività parlamentare, in realtà, confermai la mia natura. Non me ne fregava nulla di Craxi e di Andreotti, volevo fare il ministro dei beni culturali per operare come avevo fatto da presidente della “Commissione Cultura”. Forse mi sarà consentito la prossima volta, perché per otto anni ho dovuto commissariarmi per occuparmi di giustizia senza essere un giurista, invece io pensavo di fare una cosa che fosse continuità fra la storia dell’arte e la politica, nel senso di impedire cattivi restauri, costruzioni sbagliate. Con la Tv ho stimolato il recupero del centro storico di Cosenza, ho fatto togliere lampioni orribili in tutta Italia, ho difeso piazza Navona dallo scempio. Secondo me il ministro è uno che può impedire che vengano fatte delle schifezze. E quindi intendevo l’azione politica come continuazione della mia attività di critico d’arte.
Quale “sgarberia” le è riuscita meglio?
Mah, tante, devo dire! Come quella di Benetton. Arrivo in Parlamento e mi trovo di fronte tutta tangentopoli, tutti gli onesti. Agnelli denunciava 11 miliardi, io un miliardo e mezzo, Benetton 600 milioni! Dico: «Scusa una cosa… che partito degli onesti è mai questo Pri?». Allora, per dimostrare la sua trasparenza, si fece fotografare nudo. Venne da me uno dell’Espresso a chiedermi se volevo prenderlo in giro. Io ho pagato e mi feci fotografare nudo, coprendomi le pudenda. Fui licenziato in tronco dal Carlino, dalla Nazione e dal Tempo (notare che una settimana dopo pubblicarono la foto di Benetton!). Mi presentai in Tv con l’aria da tira-schiaffi e feci un numero meraviglioso: «Mi dispiace dover dire ai miei ascoltatori che tre grandi giornali - che mia madre leggeva sempre per vedere il necrologio - Il resto del Carlino, La Nazione, Il Tempo, da oggi hanno chiuso la loro pubblicazione». L’hanno bevuta tutti. Un casino furibondo, denuncie! Ma sembrava così vero come l’ho detto, che tutti si preoccuparono. Io intendevo dire, paradossalmente, che, siccome non ci scrivevo più io, il giornale era chiuso. Detto a quel modo sembrava proprio una chiusura del giornale.
Il suo giudizio su questo papa.
Ero un simpatizzante di Giovanni Paolo I, conosco a memoria gran parte dei discorsi. La tesi della cospirazione sembra molto suggestiva. Era talmente pauperista e talmente anti-curiale. L’attuale è un papa grande, o ritenuto grande sul piano storico, ma è un papa del potere e questo non me lo rende particolarmente simpatico. Certo la sua vittoria sul comunini, ma giunsi in tempo per dargli la mano. Era la migliore smentita, un atto di riconciliazione dopo quella battuta. Per cui, insomma, è una personalità di grande rilievo ma non propriamente su mia misura.
I suoi rapporti con i cappuccini?
Il ricordo più vivo del mio primo viaggio a Roma è la cripta dei cappuccini di via Veneto. Mio zio mi portò a vedere quella meravigliosa decorazione rococò fatta con le ossa dei morti. Sono passati 35 anni e ricordo benissimo, tra i quadri del Reni e del Caravaggio, quella straordinaria scritta sulla tomba dei Barberini: “Hic jacet pulvis, cinis et nihil”.
L’ho usata spesso, perché l’idea di cancellare il nome di una grande famiglia e dire che lì c’è soltanto cenere, polvere e nulla è assolutamente metafisica, degna dell’Ecclesiaste. Ricordo anche l’atmosfera di quella cripta così singolarmente ornata con i materiali della morte. Poi nel corso degli anni ho frequentato centinaia di chiese cappuccine per andare a vedere le opere, i dipinti, catalogarli, ho fatto cataloghi.
P. Mariano l’ho visto in Tv e, del resto, io faccio la sua parte quando la mattina va in onda “la casa dell’anima”. Titolo abbastanza evocativo, trasmissione pulita, non dico parolacce, non faccio polemiche politiche o civili, parlo solo di arte di letteratura, quindi sono quasi un cappuccino come p. Mariano.

(In chiusura d’intervista)

E siamo all’imbrunire romano. Luci e zampilli della fontana si lanciano nei loro giochi notturni di ombre che si rincorrono.
Nel prof. Sgarbi abbiamo trovato il mattatore, lo scanzonato, lo sparlaccione, ma anche un “uomo” che si porta dentro, dietro la facciata, il tormento d’essere uomo.
In fondo alla sua strada, “Via dell’Anima”, si sbuca nella piazza Pasquino, il famoso stroncatore che, per le sue satire, faceva tremare la nobiltà romana. Chissà, un giorno, i posteri la ribattezzeranno “piazza prof. Vittorio Sgarbi”.